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L'attenzione per la macchina da presa, per il suo muoversi, risale già alle nostre prime esperienze cinematografiche. Nel primo film convivono differenti punti di vista e diversi linguaggi: immagini "rubate", fiction, interviste "terzo grado", una molteplicità necessaria a sezionare una generazione, la nostra, che si stava trasformando. L'interesse al mezzo, in realtà, nasconde un'ambizione che via via si è delineata, un'intenzione: generare un'opera cinematografica che frapponesse tra la narrazione dell'autore e la percezione dello spettatore un diaframma, una strozzatura. Un'interferenza delicata, ma tenace, che aprisse delle varianti, degli spazi che non appartengono né alla finzione, né a ciò che si attende Io spettatore dal fluire delle immagini. Un'inquietudine da terza presenza che rompa quel meccanico rapporto tra l'immaginazione "costretta" dello spettatore (costretta al buio, all'immobilità, al silenzio) e l'immaginario "luminoso" dell'autore (illuminante nell'oscurità, illuminato nei suoi movimenti e nei suoi suoni). È l'ambizione di dare forma a una cinepresa che "pensa" e diviene veicolo per forzare la chiusa narratività di quest'esperienza, che dà spazio, un nuovo spazio, alla presenza dello spettatore. In questa intenzione si trova il punto di incontro con il percorso video che stiamo tracciando.